Les jeux sont faits: la cultura della superficie. Beckett e il teatro della crisi (Carla Rossi Acadey Press 2023)
INTRODUZIONE
Il presente studio è la proposta di una lettura del testo di Samuel Beckett Finale di Partita che, tenendo in considerazione alcune delle interpretazioni più notevoli della stessa, consideri come sia possibile un interpretare alla lettera l’opera beckettiana medesima. Ciò significa che si scartano le interpretazioni allegoriche e si ritiene che il dramma in questione sia solo un dramma da vedere sulla scena piuttosto che da interpretare. Considerando il contesto dell’opera di Beckett ovvero le sue dichiarazioni circa il suo lavoro, nonché il contesto culturale del secondo Novecento, allorquando il disorientamento valoriale si rifletteva anche in campo estetico, si proporrà la categoria della “superficialità”, intesa come la cifra significativa dell’opera beckettiana, la quale presenta il suo significato nella mera successione fonica delle parole perché esiste un annullamento tematico, e anche quando si sfiorano contenuti alti (s’intende quelli che, come il dolore, l’amore o la morte, hanno sempre interessato la letteratura occidentale), essi sono appiattiti ad un banale livello conversazionale. Laddove la conversazione dei personaggi in scena, magari con toni elegiaci o lirici, risulta essere sempre non interpretabile dal punto di vista tematico-contenutistico perché è sempre banalizzata e disattivata, ovvero portata allo stesso livello di una conversazione tipicamente priva di distinzione o originalità come quella circa le condizioni meteorologiche.
Si dimostra così che sulla scena è presentato un conversare di niente, un estenuante small talk tra i personaggi che non sfonda i limiti dell’interiorità e della profondità e che trova il suo corrispettivo nel fatto che il dramma tecnicamente non abbia una fine in senso drammatico o epico: non c'è alcuna progressione della trama la quale sembra essere terminata sin dall’inizio. Oltre la scena, invece, ci potrebbe essere un’azione reale, che non viene mostrata al pubblico, e che potrebbe risultare in un modello escatologico che sulla scena non esiste, né se si voglia fare riferimento a paradigmi apocalittico-cristiani né se si voglia fare riferimento a paradigmi tragici.
Considerando il fatto che le interpretazioni circa l’opera di Beckett sono moltissime e che, soprattutto negli ultimi anni, divergono le une dalle altre a seconda della scuola critica di riferimento e in modo speciale considerando la geminazione delle interpretazioni filosofiche, confortate dalla recente uscita del volume Samuel Beckett’s “Philosophy Notes”[1], si ritiene che non sia possibile pervenire ad una interpretazione univoca del testo beckettiano. Si considerano anche le letture “classiche” fornite da critici letterari e teatrali, come quella di Martin Esslin, che vede nell’autore un campione del teatro dell’assurdo, e non si propone alcuna etichetta per la sua opera[2].
A tale scopo, analizzo le due opere teatrali di Beckett Waiting for Godot e soprattutto Endgame. La scelta di prendere in esame proprio quest’ultima opera, e non un’altra meno indagata del corpus beckettiano, è giustificata da diverse ragioni. In primis, il tema della “fine” è ovviamente centrale in essa, già considerando il titolo; inoltre, questo testo teatrale è stato prodotto nel 1957, dopo Waiting for Godot (prodotto nel 1952), ovvero dopo la Seconda guerra mondiale. Si considerano dunque questi due testi come lenti privilegiate per comprendere fenomeni letterari e latamente culturali in un tempo in cui il Modernismo sconfinava nel Post-modernismo e in cui non solo le certezze storico-filosofiche e religiose ma anche quelle estetiche vacillavano. Sosterrò che i due testi presi in esame rappresentano una radicalizzazione dell’estetica beckettiana che non ammette ormai alcuna via di uscita se non quella autoreferenziale del continuare indefinitamente a scrivere.
Riferendosi al lavoro dell’artista Tal Coat, Beckett disse che esso avrebbe dovuto tendere a: «l’espressione che non c’è niente da esprimere, niente con cui esprimere, niente da cui esprimere nessun potere di esprimere, nessun desiderio di esprimere, insieme con l’obbligo di esprimere»[3]. C’è bisogno di molta cautela nell’applicare all’arte di Beckett stesso considerazioni che il critico Beckett volgeva ad altri artisti, come notava John Fletcher già nel 1964[4]; d’altra parte, si può usare questa laconica sentenza come suggestione per riflettere sul significato di questi due testi di Beckett nel contesto della sua opera omnia.
Una delle tesi che il mio lavoro vuole rinforzare è infatti che i due testi siano “lettera nuda”, da leggere per se; siano, cioè, una serie di parole che si dipanano sulla carta e che vengono trasferite sul palcoscenico e che non solo non hanno senso ma che non domandano al lettore e allo spettatore di ricavarne uno. Questa ipotesi verrà dimostrata avvalendosi proprio del concetto di fine intorno al quale ruota Endgame, procedendo attraverso considerazioni da avvalorare tramite le interpretazioni filosofiche che molti teorici e filosofi hanno fornito alla sua opera, e attraverso una lettura ravvicinata del testo.
Lo studio è diviso in tre capitoli, ognuno dei quali suddiviso in tre paragrafi:
1. Il titolo Les jeux sont faits rimanda alla tesi cruciale secondo cui il testo sia leggibile tecnica- mente come un gioco creato dall’autore, il quale propone un testo che abbia proprie regole estetiche non interpretabili dal pubblico e dal critico secondo le norme sociali o facendo affidamento agli strumenti d’analisi tradizionali della drammaturgia.
Il primo paragrafo Paradigmi della fine. Premessa storico-metodologica pone l’accento su come la rappresentazione della fine sulla scena rimandi a significati altri che sono interpretabili secondo schemi apocalittici e che hanno un sottostrato cristiano o tragico. Si pone l’accento sul fatto che la geminazione delle interpretazioni dell’opera beckettiana a seconda della scuola critica di riferimento è talmente ipertrofica da rendere impossibile una interpretazione univoca della stessa. I paradigmi della fine e dell’apocalisse, presenti nella letteratura d’ogni tempo, trovano in Beckett e soprattutto nel Beckett del dopoguerra un interesse di straordinaria rilevanza. Stan Gontarski sostiene che Beckett abbia operato nei suoi testi una “torsione verso l’apocalittico e l’escatologico” dopo il 1945[5]. Come approfondirò nel primo capitolo del libro, Gontarski cita il celeberrimo studio di Frank Kermode sulla letteratura che sarebbe stimolata da una sorta di senso d’apocalisse[6].
Il secondo paragrafo Il superamento delle trame lineari e i “finali nascosti” di Beckett dà conto del fatto che le convenzioni drammaturgiche stavano crollando nel Novecento; si fa rapidamente una plot analysis dell’Amleto per mettere in luce come sia possibile una plot analysis forzata dei testi beckettiani se si considerano le convenzioni del genere drammaturgico.
Il terzo paragrafo A che gioco giochiamo? La lingua è azione parte dall’assunto che il genere drammatico determina che ci sia un’azione. Il fatto che, apparentemente, nel testo di Beckett non avvenga alcunché viene risolto con la dimostrazione che le parole dei personaggi siano delle azioni nel gioco linguistico-estetico creato dall’autore che hanno senso in quest’ultimo, seppure sono incomprensibili pragmaticamente secondo le regole del gioco sociale.
2. La contestualizzazione storica aiuta ancora meglio a contribuire ad una interpretazione letterale del testo beckettiano, laddove l’interpretazione letterale è in sé una non-interpretazione, ovvero un leggere qualcosa che, se si vuole usare l’etichetta, è assurdo. Le preoccupazioni escatologiche di Beckett convergono con le riflessioni del post-1945 quando, dopo il trauma della guerra, si devono rivedere i “valori” dell’umanità.
Il primo paragrafo esamina le interpretazioni della critica anglistica.
Il secondo paragrafo procede all’analisi del plot di Endgame e sostiene che ci sia una tenuta autoriale sul testo, contro Barthes.
Il terzo utilizza il concetto di “cooperazioni estetiche” per mostrare come le azioni del testo funzionino in un gioco estetico auto-costruito.
3. Analizzando da vicino Endgame si comprende il valore della situazione assurda in cui si trovano i protagonisti, non tanto nell’allegoria d’un rapporto servo-padrone e nella raffigurazione della si- tuazione reale che esiste nel mondo, per Beckett e per tutti. La situazione assurda è data dal fatto che non esiste alcun punto importante se non il continuare ad esprimere suoni finché non arriverà una fine che, accuratamente, l’autore non esprime. Il ruolo del parlar di cose futili mentre si parla d’altro (lo small talk) risulta essere strategico nell’economia del testo, un parlare del nulla che as- sume senso proprio nel profferire parole che altro ruolo non hanno se non quello di essere suoni. In questo contesto, assume significato pure il bilinguismo di Beckett che, appunto, dopo il 1945 sceglie definitivamente il francese per scrivere. Lo scrivere in un’altra lingua rende necessario, in senso heideggeriano, abitare un altro mondo, diventa un modo di trasferirsi in un mondo altro ora che la trascendenza è preclusa e anche l’immanenza, ora che lo scacco matto è per l’uomo, per la storia e per la lingua stessa. Continuando a scrivere, il finale di partita nel gioco degli scacchi dà scacco al suo stesso finale.
Nel primo paragrafo si analizza come ci sia uno scarto dalla “profondità”, ovvero dall’approfondire i temi della cultura occidentale, dichiarati irrisolvibili.
Nel secondo paragrafo, sempre analizzando il plot del testo, si tiene in conto della humanitas e di come una valutazione latamente culturale del testo beckettiano sia possibile solo se si considera la complessa dialettica tra l’era meccanicistica e quella umanistica.
Nel terzo si reitera il concetto della superficialità e di come il testo beckettiano sia una emersione linguistica epidermica, volta a significare solo sé stessa, una tabula rasa emersa dalla distruzione dell’homo, convenzionalmente fissata al 1945.
[1] 1 S. Matthews, M. Feldman, Samuel Beckett’s “Philosophy Notes”, a cura di S. Matthews, M. Feldman, Oxford University Press, Oxford 2020.
[2] M. Esslin, Samuel Beckett: a collection of critical essays, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1965.
[3] S. Beckett, Proust and Three Dialogues with Georges Duthuit, Calder and Boyars, Richmond 1965, p. 103. (trad. mia).
[4] Cfr. J. Fletcher, Beckett e Proust, in «Caliban», 1, gennaio 1964, pp. 89-100. Fletcher mette in guardia dal trasferire troppo meccanicamente le interpretazioni che Beckett dà all’opera di Proust alla sua stessa produzione.
[5] S.E. Gontarski, A Sense of Unending, in Samuel Beckett Today / Aujourd'hui, 21, 2009, pp. 135-149.
[6] F. Kermode, The Sense of an Ending: Studies in the Theory of Fiction, Oxford University Press, Oxford 1967.
RECENSIONI
Nota editoriale di Marino Alberto Balducci: Argomento centrale del presente volume
[…] Argomento centrale del presente volue critico è la “superficialità” nella scrittura creativa di Samuel Beckett, una “superficialità” intesa come categoria precipua utile a codificare la natura di un certo agire e comunicare umano contemporaneo, caratteristico di un’epoca generalmente desacralizzata in cui l’individuo può essere predadi un angosciante lasciarsi vivere, senza fine e senza scopi, in una realtà che sente ogni giorno più deprivata di chiari riferimenti e di valori. […]
Prefazione di Federica Perazzini: […] Pare infatti impossibile che quelle minuziose descrizioni di oggetti, luoghi, atti, non alludano a qualche altra cosa”. E dunque dalle Illusioni alle Allusioni Perdute, potremmo concludere in maniera ironica questa breve introduzione alla monografia di Sanges che con grande acume critico l’adorna di un titolo di più alta raffinatezza e densità come Les Jeux Sont Faits; una formula che richiama la teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein nonché l’omonima sceneggiatura di Jean-Paul Sartre per il film di Jean Delannoy del 1947, ma che forse, per i più, non è altro che una eco dei croupier ai tavoli della roulette. Incastonata nel tripartito stilema del gioco d’azzardo tra Faites vos jeux e rien ne va plus, (fate i vostri giochi, niente va più), les jeux sont faits è l’espressione che sospende le puntate dei singoli giocatori condannati ad una stasi insostenibile mentre una piccola palla bianca dal moto vorticoso deciderà le sorti delle loro scommesse. Si vince, si perde, si ricomincia, e così per un’infinità di mani e puntate tutte uguali in cui, per citare il Beckett di Worstward Ho dell’1986 “[We] Try Again, Fail Again, Fail Better”. Sì perché se la scommessa è quella della ricerca del senso allora abbiamo fallito in partenza. È chiaro che Beckett ha già fatto il suo gioco lanciando la pallina bianca su una roulette, probabilmente truccata, che continua a girare all’infinito lasciandoci appesi senza più niente da dire o puntare.
Prefazione di Maria Truglio: […] Sanges illumina gli echi che risuonano per tutto il dramma delle opere classiche, opere conosciute dall’autore irlandese estremamente colto (e “non morto,” nel senso barthiano che Sanges nega: è proprio lui che crea le regole del suo gioco). A Silvia di Leopardi, Belacqua di Dante, le tragedie di Shakespeare, già notati qui sopra, costituiscono alcuni testi che servono da punti di contatto. Ma il critico non intende solo rintracciare tutti i fili intertestuali per poter decodificare il testo. Invece, questi echi sono sempre fiacchi, e indicano, ciascuno a suo modo, l’impossibilità di attivare effettivamente i sentimenti o le emozioni a loro associati. L’esempio del personaggio dantesco ci serve: Sanges asserisce che “Belacqua è un personaggio fondamentale nella letteratura beckettiana e perché testimonia l’ovvio interesse letterario di Beckett per Dante e quindi fornisce al critico coordinate culturali, e perché la sua condizione di ‘pigrizia’ e di stasi risulta essere, da un punto di vista di aneddotica biografica, come una sorta di proiezione dell’autore in letteratura, ma ciò che conta (soprattutto in questa sede) è che questo personaggio statico (inattivo) potrebbe addirittura essere un fil rouge della dinamica dell’azione drammatica immobilizzata” (enfasi aggiunta). È qui, nel concetto di disattivazione, che si trova il meccanismo centrale del dramma. […]
Recensione di Davide Crosara, Status Quaestionis 27 (2024): 433-435.
Il volume di Sanges propone uno studio attento e approfondito di due drammi fondamentali di Samuel Beckett, Aspettando Godot e soprattutto Finale di partita; non mancano tuttavia utili riferimenti a prose coeve di Beckett, dalla Trilogia ai Texts for Nothing. Le intenzioni dell’autore vengono dichiarate sin dall’inizio; si intende analizzare il teatro beckettiano per mezzo della “categoria della superficialità, intesa come la figura significativa dell’opera beckettiana” (Sanges 2023, 25). Endgame e Waiting for Godot sono cioè caratterizzati, secondo la prospettiva offerta da Sanges, da un persistente e programmatico annullamento tematico, che riduce il dialogo teatrale a banale conversazione, e ogni pretesa tragica a un “estenuante small talk” (idem). In coerenza con quanto proposto, Sanges ritiene che ogni interpretazione critica di Waiting for Godot e Endgame sia di fatto impossibile, poiché la ricerca di un senso profondo o di un messaggio tradirebbe le premesse dei due testi; per tale ragione la moltitudine di orientamenti critici che si son succeduti dal secondo dopoguerra in poi vengono puntualmente enumerati ma respinti dall’autore. […]
Recensione di Francesco Muzzioli, Diacritica 51 (2024): 200-202.
[…] Ben venga dunque uno studio serio e filosoficamente agguerrito come quello che a Beckett ha dedicato Antonio Sanges: Les jeux sont faits: la cultura della superficie, Carla Rossi Academy Press. Un saggio di dibattito e di polemica, che ha il merito di seguire – con coerenza e scansando tutte le influenze, anche le esimie – una sua ipotesi, che potremmo condensare nella parola “superficialità”. Vi aveva accennato Savinio, nella sua Nuova Enciclopedia, là dove affermava: «Scopro l’inesistere della profondità», e: «Anche la ‘profondità’ è una ‘superficie’». Sanges ne fa la base di un approccio che tiene in sospetto l’imperversare dell’interpretazione. Against interpretation, aveva detto la Sontag: e nel caso di Beckett la questione si fa ancor più spinosa perché tanto più lo scrittore si batte contro il Senso con la maiuscola, cercando di impedire che si coaguli (per fallire sempre meglio, cioè peggio), e tanto più si fa alta la tentazione di ricondurlo indietro, in più “spirabil aure”, attribuendoglielo questo Senso, volente o nolente. La tentazione metafisica (nel Godot tradotto quale deus absconditus), la tentazione esistenziale (la negazione del senso come crisi dell’affettività), oltre che, ovviamente, la versione psicoanalitica, perché l’oltranzismo di voler continuare a dire il nulla da dire è ideale per l’analista che trae indizi proprio dall’inessenziale, basta che continui a parlare. […]
Recensione di Federico Platania, Samuelbeckett.it
Conclude dunque Sanges: «I personaggi di “Finale di partita”, in toni lirici o elegiaci, discutono di amore, dolore e morte, ma senza che la conversazione e la riflessione giungano a un reale approfondimento». La chiave di lettura migliore per un testo simile resta dunque l’osservazione della superficie emersa del testo scoraggiando il lettore dal trovare un senso più profondo (impossibile non pensare al celebre apoftegma contenuto nei 37 addenda al romanzo “Watt”: «Non esistono simboli dove non c’è l’intenzione»). In questo senso Le jeux sont faits può essere considerato un saggio che tenta una via interpretativa, se non del tutto inesplorata, quanto meno poco battuta dell’opera di Beckett.
Recensione (in inglese di Filippo Ursitti), Kwartalnik Neofilologiczny.
In Antonio Sanges’ book Les jeux sont faits: La cultura della superficie. Beckett e il teatro della crisi, Sanges challenges conventional interpretative approaches to Samuel Beckett’s works, particularly rejecting the absurd poetic and allegorical explanations. Instead, he advocates for a literal (‘logical’) interpretation grounded in the notion that Beckett’s discourse on nothingness signifies a conscious acknow- ledgment of the failure of poetic language. The key argument posits that a herme- neutics of superficiality, contextualised within an aesthetics of small talk, unveils the true meaning of Beckett’s oeuvre. Sanges distances himself from established inter- pretative schools asserting that Beckett’s works do not necessitate interpretation but are justified by the aesthetic game crafted by Beckett himself. […]