SAGGI
Articolo su Beckett e la cultura della superficie (in inglese)
“Plays as linguistic games: a literal interpretation of Beckett’s postwar theatre”. Kwartalnik Neofilologiczny (2024), 1: 77-88.
ABSTRACT
In this article, I propose a ‘literal’ interpretation of Beckett’s postwar theatre, which allows to give importance to an ‘aesthetic of sound’ in which a work of art finds its own sense in the fact that it is a linguistic game created by an author. After 1945, the author becomes unable to speak about the profound themes of the Western tradition, but can write plays in which there is the configuration of an aesthetic of the small talk, to be analyzed according to a hermeneutics of superficiality.
KEYWORDS: Beckett, theatre, interpretation, superficiality, contemporary literature
L’Age d’or, rivista online di cinema e cultura, 7 febbraio 2024
La fotografia prima della fotografia: il Dada e la perdita dell’aura:
[…] La fotografia si rifiuta di essere determinata téchne e prodotto dell’industria, e diventa invece analoga ad un ready-made dadaista: ciò che conta è il concetto celato dietro al prodotto, il quale è certamente un prodotto industriale ma non per questo meno artistico. In tal senso almeno, la fotografia rifiuta una linea ereditaria unica dal dipinto e dall’arte tradizionale e rifiuta di essere una figlia degenere, ad esempio, della grande arte rinascimentale. Ponendosi nell’ottica dell’importanza del concetto che si cela dietro all’atto artistico e delle conseguenze dello stesso, la fotografia può essere paragonata, in sede di giudizi estetici, più a un ready-made dadaista che a un dipinto di Leon Battista Alberti. Questa idea non è scevra di difficoltà, anche perché nel seno stesso delle avanguardie del Novecento, acuni artisti, come il futurista Boccioni, continuano a privilegiare la pittura come strumento meramente visuale, contestualmente rifiutando la fotografia a causa della sua natura non selettiva: con la fotografia l’artista non sceglie che cosa gli interessa. D’altronde, i fotografi “puristi” del Novecento sostenevano che la fotografia dovesse registrare la realtà senza ambizioni artistiche, ma fiorivano le fotografie “non ortodosse”. […]
RECENSIONI A LIBRI E SPETTACOLI TEATRALI
Diacritica, fasc. 55.
Recensione di Silvio Raffo, “L’ultimo poeta” (Elliot 2023)
di Antonio Sanges
Che la civiltà occidentale non versi in buone acque è ormai un noto Leitmotiv costantemente ripetuto da intellettuali, giornalisti, politici, letterati, figuri dell’intellighenzia dall’identità più o meno definita che popolano svariati circoli del beau monde. Molto spesso (sempre?) i loro discorsi sfociano fatalmente in critiche sociali strettamente legate all’attualità e alla cronaca, pronunciate con tale cattivo gusto che viene da pensare che, se si vogliono rintracciare valori per i quali vale la pena lottare, non resta che rifugiarsi nell’antica età dell’oro, nella mitica Arcadia perduta per sempre, e contemplarla nostalgicamente. A salvare il mondo dall’inarrestabile declino dovrebbe essere la Bellezza, e i poeti (posto che, com’ebbe a pensare Cioran, non tutto è perduto, e in questo caso non ci resta che attendere i barbari). Ma, se i veri poeti non esistono (quasi) più, allora chi salverà il mondo? […]
La fionda
Recensione a Sirio Zolea, Gli spettri muti
Nella nota dell’autore, Sirio Zolea parla del suo romanzo definendolo un ‘esperimento letterario’. Lo fa a ragione, dal momento che la caratteristica più macroscopicamente vistosa de Gli spettri muti (Herald 2025) è proprio quella dello sperimentalismo. In un momento storico in cui si parla (ormai da tempo) di morte dell’autore, di morte della letteratura, di morte della cultura (il tutto declinato specificatamente nella versione di cultura occidentale), di operazioni sperimentali e avanguardistiche le quali servirebbero la causa di tenere in vita quello che è alternativamente definito un corpo spacciato, una larva, una carcassa in decomposizione, uno spettro, appunto, oppure un prodotto mercificabile – il prodotto letterario – Gli spettri muti si propone come un’operazione radicalmente sperimentale e libera. Si tratta di un romanzo avanguardistico, che tuttavia non si allinea ad alcuna ‘scuola’, trovando nella radicalità e nello sperimentalismo la sua stessa ragion d’essere, la sua cifra prettamente stilistica più importante e, ad un altro livello, la forza propulsiva del suo potenziale di critica sociale, politica, culturale. Intendo dire che il romanzo è naturaliter sperimentale senza che tuttavia tenga conto di specifici elementi propri delle varie scuole avanguardistiche, che potevano rintracciarsi, poniamo, nel Gruppo 63. Né, soprattutto, almeno coloro i quali diano credito al classico di Fredric Jameson, Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism possono definirlo un romanzo postmoderno, ché esso rigetta ogni semplificazione ed è impermeabile ad ogni assimilazione mass culturale e ad ogni mercificazione. Lo sperimentalismo diventa al contrario il motore attivo di una critica integrale.
RACCONTI
SCIABORDIO (pubblicato su Readaction Magazine)
Ci vuole fegato a morire in riva al mare.
Ascoltavo, coricato sul mio dorso, il rumore delle onde che s’infrangevano sulla battigia. Prepotenti, le onde prendevano la rincorsa, uomini di gesta epiche che si scagliavano in battaglia. Poi, dopo la furia dell’assalto, si calmavano e, più miti, battevano in ritirata, paghe della loro dolce violenza sul bagnasciuga.
Ero steso su un lembo di spiaggia, molto vicino all’acqua, il mio corpo nudo esposto al vento, al sole e al cielo; il mio dorso era indagato dai granelli di sabbia, che solleticavano la pelle. Prendevo granelli di sabbia nel palmo della mia mano e, contando le ore, cercavo di vedere l’infinito in uno solo di essi. Ma avevo gli occhi chiusi. L’infinito, forse, e’ nelle onde sonore e non nel tocco della sabbia o nella vista del mare.
Avrei riconosciuto il suono delle onde del mare in qualunque condizione. Non ricordavo di essere andato in una località balneare, non ricordavo da quanto tempo avevo gli occhi chiusi. Ero però certo di essere al mare. Avrei riconosciuto il rumore delle onde in qualunque condizione psicofisica, in qualunque tempo ed in qualunque luogo. Non avevo che conoscenze rudimentali circa la natura del suono, derivate dagli studi che ogni uomo occidentale compie a scuola; ne’ avevo conoscenze circa la natura del suono; non avrei saputo neppure dire che cosa fosse tecnicamente un’onda sonora.
Non avrei aperto i miei occhi per lungo tempo. Non sapevo, e non avrei saputo, se ero in un’isola mediterranea o nel Mar dei Caraibi, se in una località turistica oppure in capo al mondo. Avessi dovuto scommettere, avrei detto che ero in una spiaggia deserta, in un luogo abbandonato da Dio e dagli dei, lontano dalla civiltà occidentale; immaginavo di essere in una spiaggia dimenticata, inesplorata, che era frequentata da uomini diversi da me. In quel luogo, la civiltà occidentale, che aveva bagnato e forse intossicato la mia mente non era giunta.
Ero in una terra vergine, che non aveva conosciuto un Eschilo o le gesta di Achille, non i monumenti colossali e le pompe dei cesari, non l’odore del sangue delle battaglie, non i dilemmi amletici, non le voragini degli irrisolvibili dubbi del vivere e del morire.
Ma quel luogo non era neppure l’Oran di Albert Camus. Lui voleva un luogo senz’anima: “pour fuir la poesie et retrouver la paix des pierres, il faut d’autres deserts, d’autre lieux sans ame et sans recours”. Ma io non fuggivo la poesia, credo. Certo, fuggivo il clangore delle città europee dove, come dice Camus, c’e’ sempre la poesia, sempre la storia, sempre il sentore di un Napoleone o di un Balzac. Ma l’Occidente, mio fantasma e mia larva, mi seguiva. Le onde del mare per me erano onde sonore e le onde sonore erano quella musica che solo amatorialmente conoscevo ma che aveva fondato la civiltà che aveva scolpito la mia struttura d’uomo.e’e’e’
Ho perduto la verginità troppo presto. Pensai che associare l’onda del mare alla musica di un Mozart, o alla civiltà di un Wagner o di un Mahler, fosse assurdo. In un lembo di mondo lontano, antico, che respirava solo il suo mare, le mie visioni si concentravano sulla natura del linguaggio musicale.
Ludwig Wittgenstein, in uno dei pensieri più vertiginosi che mente filosofica abbia mai partito, afferma che “in un certo senso la musica e’ la più raffinata di tutte le arti”. Ma perche’, mi chiedevo, in riva al mare pensavo a ciò? Lo stesso Wittgenstein, in un pensiero successivo, afferma che “Vi sono problemi ai quali non mi accosto mai, che non si trovano nella mia linea o nel mio mondo. Problemi dell’universo del pensiero occidentale ai quali Beethoven (e forse Goethe) si e’ accostato e coi quali ha lottato”.
Beethoven! In quel posto non c’era un Beethoven, un sublime genio che componeva o, chissà se si può far dell’ironia qui, un “sordo strimpellante”. Non c’era un Beethoven con un pianoforte, ma c’erano le onde del mare.
Forse, il punto e’ che le sinfonie beethoveniane sono raffinate in senso profondo, mentre le onde sonore del mare in maniera più superficiale. Per questo Wittgenstein credeva che il tedesco si fosse avvicinato alla comprensione dei problemi dell’uomo occidentale? Colpa, destino, dolore, perche’ si nasce, perche’ si muore, il dolore ... ma il catalogo non e’ questo solo, io prendo i primi che mi vengono in mente, forse neppure i miei prediletti.
Ma ero in riva al mare! Chissà perche’ ci ero venuto, chissà perche’ mi ero accostato a quel territorio vergine, lontano da me, lontano dalla mia civiltà.
Avevo ancora gli occhi chiusi, ma la luce che sbatteva sulle mie palpebre era meno intensa, il sole doveva tramontare all’orizzonte di lì a poco; le onde del mare s’abbattevano sulla battigia, modulando le loro sonorità. Me ne stavo ad ascoltare il rumore delle onde.
Dopotutto, forse ero venuto in quel luogo a morire.
All’orizzonte il sole tramontava e il rumore delle onde mi tramortiva. Non l’avevo immaginata così, la mia morte; avevo sempre pensato che sarei morto in silenzio, lontano dai miei luoghi, lontano da me stesso, lontano dalla mia epoca.
Le onde del mare non erano solo onde del mare. Erano musica con troppo passato che teneva sveglia la mia mente.
Pensai:
“Me ne starò qui, con gli occhi chiusi, in questo posto dimenticato da Dio e dagli dei. Me ne starò qui, finche’ un uomo indigeno non mi costringerà ad aprire le palpebre e ad imparare qualcosa sulle onde che io non so già. Forse qualcun altro, qualcuno con più talento, potrà morire con il rumore delle onde del mare nelle orecchie. Non io. Non oggi. Ci vuole fegato a morire in riva al mare.”